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DIO PADRE ONNIPOTENTE

 

 

PADRE ONNIPOTENTE

  

Per te chi è Dio?

Sicuramente a questa domanda possono presentarsi molte risposte,

forse, più facilmente, molti silenzi ed interrogativi.

Se da un lato il pensiero di Dio attira, affascina,

da un altro esso suscita un’infinità

di atteggiamenti emozionali e talvolta contraddittori.

Ne è prova una certa rinascita del sentimento religioso ai nostri giorni.

 

Al di fuori della rivelazione biblica ed evangelica

gli uomini hanno tentato diversi approcci

al mistero del Dio Trascendente

dandogli diversi volti e nomi.

Ne sono prova la varietà di religioni che hanno visto

il loro nascere lungo i secoli in tutte le parti del mondo.

Paolo nell’Areopago di Atene vedendo

la varietà dei templi e degli altari  esistenti sull’Acropoli di Atene

non perde l’occasione per annunciare il vangelo:

Cittadini di Atene, vedo che siete in tutto molto timorati degli dèi.

Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto,

ho trovato anche un altare con l’iscrizione: Al Dio ignoto.

Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio (At 17,22-23).

Paolo non disprezza questa ricerca “a tentoni” da parte dell’uomo naturale;

è un inizio, un preannuncio, una disponibilità

a ricevere il dono della rivelazione.

Certo egli afferma che, a causa del peccato,

questa ricerca è destinata a girare a vuoto

ed ad imboccare molte vie errate.

 

Per passare dal Dio Ignoto al Dio unico e vero

occorre che egli si riveli, mostri il suo volto irraggiungibile.

E noi crediamo che Gesù abbia rivelato pienamente questo volto. 

 

Credo in Dio Padre onnipotente

 

Al concetto di Dio onnipotente l’uomo naturale era giunto,

ma dandole tonalità che facevano riferimento al suo concetto di potenza:

quindi caratterizzata da un potere indiscriminato,

imprevedibile, capace di incutere rispetto e paura…

una onnipotenza, in fin dei conti, poco simpatica.

 

Ma nel simbolo apostolico

noi affermiamo che Dio è Padre onnipotente!

La parola Padre frapposta

a Dio e ad Onnipotente  ci abbaglia e ci sconcerta,

perché queste due parole (Dio e Onnipotente)

alla luce della paternità cambiano totalmente prospettiva.

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COMMENTO AL PADRE NOSTRO

 

MA LIBERACI DAL MALE

  

Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono (Gn 1,31).

Nonostante questa affermazione posta nella prima pagina della Scrittura

Gesù ci fa invocare, per l’affrettarsi del Regno,

al Padre la liberazione dal male: Liberaci dal male!

 

E’ nell’esperienza comune dell’uomo di ogni tempo

 una suddivisione della realtà in cose buone e cattive.

To’b – agathos è tutto ciò che è buono e bello,

ciò che sentiamo piacevole.

Al contrario ra’ – poneròs – kakòs è ciò che è portatore di sofferenza,

dolore, e soprattutto morte.

 

LIBERACI DAL MALIGNO

 

L’ultima domanda del Padre nostro la ritroviamo anche

nella preghiera stessa di Gesù per i suoi discepoli:

Non chiedo che tu li tolga dal mondo,

ma che li custodisca dal Maligno (Gv 17,15).

Ci vogliamo inserire in questa preghiera che si fa solidale

con tutta l’umanità bisognosa di liberazione.

 

Il termine poneròs con cui si definisce il “male” è equivoco:

grammaticalmente può essere inteso

sia al genere neutro come a quello maschile.

Il “mistero di iniquità” nella rivelazione non viene inteso

solo come una semplice assenza di bene;

esso è una forza, un’entità personale,

che asservisce l’uomo e corrompe il mondo.

Il catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

Il Male non è un’astrazione, indica invece una persona:

Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio.

Il “diavolo” (“dia-bolos” colui che “si getta di traverso”)

è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio

e la sua “opera di salvezza” compiuta da Cristo. (n. 2851).

Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, essa gli si oppone.

Ha iniziato una guerra incessante che durerà quanto la storia.

Si avventa “contro la Donna”, ma non la può ghermire.

Allora si infuria contro la Donna” e se ne va

“a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12,17).

E’ per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano:

Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17.20):

la sua venuta infatti ci libererà dal maligno” (CCC 253).

 

Teniamo tuttavia ben ferma la certezza che se il demonio

regna nel mondo lo fa solo per mezzo della malizia umana.

Nella misura in cui la malizia viene ammessa e prevale nel nostro cuore

si cade sotto l’influenza dominatrice di Satana:

Il Male non è infatti tanto forte da potersi opporre

alla potenza del signore,

ma ha potuto nascere in virtù della disobbedienza ai comandamenti

(Gregorio di Nissa, Il fine cristiano).

 

L’entrare nel regno include una violenza,

una volontà risoluta nel voler collaborare con la grazia

al fine di vincere tali tendenze-passioni.

E’ questo il grande capitolo che la teologia spirituale

riserva all’ascesi, indispensabile componente di ogni cammino

che voglia dirsi autenticamente spirituale.

“Le nostre affezioni disordinate,

i nostri favoreggiamenti allo spirito laico e borghese,

i compromessi con ogni forma di potere

sono le catene delle quali il maligno tiene uno degli estremi

per ritardarci, farci indietreggiare,

vacillare e cadere sul cammino della salvezza.

Rotti questi legami, Satana non ha più potere su di noi” (A. Ledrus).

Paolo inviterà i cristiani di Efeso:

Rivestite l’armatura di Dio

onde poter resistere alle insidie del diavolo.

La nostra lotta non è con avversari di sangue e carne

ma contro i principati e le Potestà,

contro i dominatori di questo mondo di tenebra,

contro gli spiriti del male” (Ef 6,11-12).

 

Da qui il dovere di una vigilanza incessante:

Siate sobri, vigilate, il vostro nemico il diavolo,

come leone ruggente si aggira, cercando chi divorare.

Resistetegli saldi nella fede (1Pt).

 

In questo combattimento contro il male

è necessario rinsaldare la virtù della speranza,

che vinca ogni nostro scoraggiamento

quando sperimentiamo la nostra debolezza e sconfitta.

Occorre sempre ravvivare la speranza nella vittoria di Cristo

a cui già partecipiamo in virtù della fede e del battesimo.

E’ Cristo vincitore che alla sua comunità

e ad ogni discepolo ripete ancora oggi:

Ecco che io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni

e ogni potenza del nemico, e niente vi nuocerà (Lc 10,19).

 

Scrive sant’Ambrogio nel suo trattato De Sacramentis:

Il signore che ha cancellato il vostro peccato

e ha perdonato le vostre colpe,

è in grado di proteggervi e di custodirvi

contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario,

perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda.

Ma chi si affida a Dio, non teme il diavolo:

“Se infatti Dio è con noi chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)” (5,30).

 

Siamo discesi con quest’ultima domanda

nel profondo della nostra povertà,

l’abisso del male in cui rischiamo di rimanere avvinghiati.

Il Padre nostro ci ha fatto ripercorrere tutti i grandi temi della fede,

ora si conclude qui,

con una invocazione al Padre

affinché doni ai suoi figli la pace, la vita, la gioia,

l’allontanamento da tutto ciò che si può frapporre tra noi e Lui.

In quest’ultima domanda la Chiesa porta davanti

al Padre tutta la miseria del mondo.

Insieme con la liberazione dai mali

che schiacciano l’umanità,

la Chiesa implora il dono prezioso della pace

e la grazia dell’attesa perseverante del ritorno di Cristo.

Pregando così, anticipa nell’umiltà della fede

la ricapitolazione di tutti e di tutto

in colui che ha “potere sopra la Morte

e sopra gli Inferi” (Ap 1,18),

“colui che è, che era e che viene,

l’Onnipotente” (Ap 1,8) (CCC 2854).

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COMMENTO AL PADRE NOSTRO

 

NON CI INDURRE IN TENTAZIONE

 

 

Una conclusione questa della preghiera del Signore

che apparve subito alquanto strana

se paragonata a tutte le preghiere giudaiche.

Esse non terminano mai, per così dire, al negativo,

ma sempre con una benedizione o una richiesta di pace.

Nel Padre Nostro, quasi si discendesse una china sempre più profonda,

al termine ritroviamo il richiamo alla tentazione e al maligno!

 

UN DIO CHE CI TENTA?

 

Come se non bastasse questo la stessa richiesta

di “non indurci in tentazione” risulta poco chiara.

Immediatamente viene da domandarsi:

come mai Dio metterebbe alla prova l’uomo?

Teniamo però presente che anche in questo caso

le “tentazioni” non sono attribuite a Dio.

E’ la fede in lui  che aiuta ad affrontarle e superarle.

 

COS’E’ LA TENTAZIONE?

 

Il termine “tentazione” nell’accezione comune

richiama immediatamente una provocazione al male, al peccato.

Da qui la difficoltà a capire come Dio possa “indurre” al male.

Ma un’analisi dei testi biblici fa risaltare chiaramente

che esistono diversi tipi di tentazione.

C’è quella che ha come scopo quello di farci cadere,

e Dio non ne può essere l’autore.

Vi è una seconda tentazione il più delle volte tesa dall’uomo a Dio

che si presenta come una volontà negativa di verifica:

“Se… allora….”. Dio non si sottomette mai ad essa.

C’ un’altra tentazione che non presenta caratteristiche

di occasione di male e scelta del bene.

E’ quella che si offre all’uomo come un’opportunità di crescita,

di purificazione, di miglioramento.

Questa tentazione contiene sì implicitamente

il rischio della caduta nel male o nell’errore

ma è pure passaggio obbligato per una crescita.

Questa tentazione, nel Nuovo Testamento,

non è presentata come proveniente da Dio.

Dio ne insegna invece la via d’uscita,

dona la forza per affrontarla e superarla (cf 1Cor 10,13).

La medesima situazione che da parte di Satana è sfruttata

come “tentazione”, cioè insidia per trascinarci all’infedeltà,

rappresenta una “purificazione” da parte di Dio

per consolidare la stessa nostra fedeltà.

 

Facciamo poi attenzione che la lingua ebraica

non distingue tra volontà causativa e volontà permissiva.

Quando la Scrittura dice che Dio “tenta”,

ciò equivale a “permette la tentazione”.

E quindi anche l’espressione del Pater

traducendola va intesa correttamente così:

Non permettere che siamo indotti in tentazione.

Nel Pater non chiediamo solo di non cadere,

ma addirittura di “neppure entrare”

nella tentazione di abbandonare la sequela di Gesù.

 

Un’antica preghiera ebraica contemporanea a Gesù diceva:

Non indurmi al potere del peccato, né alla forza della colpa,

né alla violenza della tentazione, né al disprezzo.

Fa’ in modo che io sia guidato dall’istinto buono

e che l’istinto cattivo non mi domini (Ber.b. 60b).

 

LA GRANDE TENTAZIONE

 

Ancora una volta vediamo come il Padre Nostro

ci riaggancia alla preghiera di Gesù nel Gethsemani.

Significativamente l’ambito in cui il Pater

viene a collocarsi in modo perfetto, ci dicono gli esegeti,

sembra essere proprio il racconto della dolorosa passione del Signore.

Se Gesù ci fa chiedere di “non essere indotti in tentazione”

questo è perché lui stesso ha provato la violenza della tentazione:

Sa compatire le nostre infermità

perché è stato tentato in tutto come noi (Ebr 4,15)

Nel Padre nostro non chiediamo al Padre

che prepari per noi un cammino diverso,

più comodo e meno rischioso di quello del Figlio suo Gesù.

Imploriamo da lui invece di non essere lasciati

a soccombere tristemente e mortalmente alla tentazione.

 

L’ARMA DEL CRISTIANO

 

Quale è l’arma affidata da Gesù

al discepolo contro l’insidia di questa tentazione?

E’ la preghiera:

Vegliate e pregate per non entrare in tentazione (Mc 14,38).

Si chiede di neppure entrare

e non solo di non cadere nella tentazione!

La preghiera incessante manifesta la nostra fiducia

nella fedeltà incrollabile del Padre

che non lascia il proprio figlio soccombere alla prova

(“Ti basta la mia grazia” si sente dire Paolo 2Cor 12,7-9).

La tentazione diviene pericolo quando si tralascia la preghiera.

La prova sarà “troppo forte” soltanto se,

venendo meno la preghiera,

non otteniamo quello aiuto  che Dio

ha predisposto ottenessimo tramite essa.

“La tentazione c’è:

il cristiano deve sapere che c’è

e pregare di non cadere in una situazione fatale

per la sua vocazione di figlio di Dio.

Il discepolo di Gesù,

il povero sempre minacciato da colui che è “forte”,

deve domandare a Dio ogni giorno,

come domanda il pane,

la forza per non essere travolto nella prova,

la forza per restare fedele alla sua vocazione di figlio di Dio;

la domanda per sé e per gli altri,

che possono essere tentati come lui” (M. Ledrus).

 

Afferma il Catechismo:

Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera.

E’ per mezzo della sua preghiera

che Gesù è vittorioso sul tentatore fin dall’inizio

e nell’ultimo combattimento della sua agonia.

Ed è al suo combattimento e alla sua agonia

che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro.

La vigilanza del cuore, in unione alla sua,

è richiamata insistentemente.

La vigilanza è “custodia del cuore”

e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome. (n. 2849).

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COMMENTO DEL PADRE NOSTRO

 

 

PERDONA I NOSTRI DEBITI

 

 

Ci presentiamo al Padre come “debitori”.

E’ atteggiamento di verità e umiltà.

Ciascuno di noi lo è.

Origene scrive: “Nessun uomo passa un’ora del giorno

o della notte senza contrarre un debito”.

Il peccato è in me e sento che solo l’amore che promana dal Padre

per il Figlio nello Spirito mi può guarire da questo germe di morte.

 

Il Kerigma apostolico è il lieto annuncio di questo perdono

che Dio ha offerto al mondo per mezzo della croce del Figlio.

Ma in che senso Dio perdona?

Ci possono essere diverse visioni del perdono offertoci.

Fa finta di non vederle, o… si “dimentica”,

La rivelazione non dice questo.

Dio prende sul serio il peccato,

in tutta la sua gravita e drammaticità.

Esso è autodistruzione dell’uomo e allontanamento da Dio:

conduce alla morte.

La salvezza, la grazia offertaci, ha perciò un prezzo altissimo:

la vita preziosa del Figlio.

Dio perdona nel senso che converte il peccatore,

gli cambia il cuore.

Lo rinnova dal di dentro con la grazia dello Spirito.

Non gli offre solo una “copertura giuridica”,

è una “ricreazione” dell’uomo stesso ad immagine di Cristo.

Siamo stati riconciliati con il Padre

per mezzo della morte del Figlio suo (Rm 5,10).

Nel Figlio “abbiamo la redenzione,

la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7).

Quest’esperienza dell’essere perdonati è fondamentale:

Non posso muovere un solo passo,

non solo per strada ma nella vita,

senza ricordarmi del perdono e della misericordia di Dio,

della sua volontà che io esista:

altrimenti il disgusto di me stesso

e la sensazione della mia inesistenza

mi disintegrerebbero nel nulla

o, per essere più esatti, nell’inferno” (O. Clèment).

Siamo debitori perché in fin dei conti dovremmo

prendere coscienza che noi riceviamo costantemente

noi stessi dalle mani di Dio Padre.

 

 

PERDONARE I DEBITORI

 

Che significa “perdonare i debitori”?

Non si tratta soltanto di perdonare le offese

che ci sono state arrecate,

ma anche che rinunciamo a qualunque rivalsa

nei confronti di chi ci ha rifiutato ciò che ci spettava di diritto,

ovvero che siamo disposti a rimetterci.

Discorso assurdo per l”uomo carnale”, direbbe s. Paolo,

che non intende le cose spirituali, la logica del Regno e della Croce.

Non dimentichiamo il contesto in cui

nel vangelo di Matteo Gesù insegna il Padre nostro:

il discorso programmatico e rivoluzionario delle Beatitudini.

Solo a coloro che lo accolgono senza rimanerne scandalizzati

è dato di comprendere che

l’amore non tiene conto del male ricevuto,

tutto scusa, in tutto fa credito (1Cor 13,5).

Un atteggiamento certamente difficile e costoso

se già sant’Agostino lamentava

che durante la liturgia alcuni si battevano rumorosamente il petto

nella prima parte dell’invocazione per poi… tacere nella seconda!

Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

Questo flusso di misericordia non può giungere

al nostro cuore finché noi

non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso…

Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle,

il nostro cuore si chiude

e la sua durezza lo rende impermeabile

all’amore misericordioso del Padre;

nella confessione del nostro peccato,

il nostro cuore è aperto alla sua grazia”.

Il nostro cuore vacilla di fronte a questa esigenza

che appare a volte realmente insormontabile.

Aggiunge a questo proposito il catechismo:

E’ impossibile osservare il comandamento del Signore,

se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno.

Si tratta invece di una partecipazione vitale,

che scaturisce “dalla profondità del cuore”,

alla Santità, alla Misericordia, all’Amore del nostro Dio.

Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita,

può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in cristo Gesù.

Allora diventa possibile l’unità del perdono,

perdonarci “a vicenda “

come” Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32)”.

 

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COMMENTO DEL PADRE NOSTRO

 

DACCI OGGI IL NOSTRO PANE

 

 

Nella prima parte del Padre Nostro avevamo tre desideri,

tre auspici da rivolgere al Padre che è nei cieli.

Nella seconda parte sono contenute invece

tre domande che riguardano direttamente noi:

gli chiediamo il pane,

il perdono dei nostri peccati,

la vittoria sulle tentazioni.

 

Domandare il cibo rimanda  al nostro essere creature,

legate alla terra;

in un certo senso rivela la nostra verità di esseri limitati,

incompiuti, dipendenti, mortali.

Fa scomparire in noi la pretesa di una spiritualità disincarnata,

che non vuole fare i conti con la storia

e con la realtà concreta in cui siamo immersi.

Scrive san Gregorio Nisseno nel suo commento al Padre nostro:

 “Dacci oggi il nostro pane quotidiano:

questa frase esprime un altro insegnamento morale:

ti aiuta a comprendere attraverso le parole che pronunci

che la vita umana è effimera:

a ciascuno appartiene soltanto il presente,

la speranza del futuro rimane avvolta nel mistero,

non sappiamo infatti che cosa porterà il domani.

Perché ci affanniamo per le preoccupazioni del futuro?

Ci rendiamo coscienti di questo

quando poniamo l’azione di grazie prima dei pasti.

Quel cibo che sta davanti a noi è “nostro”

ma è prima ancora “grazia”.

Testimonia che anche oggi Dio ha provveduto.

Perché la vita non diventerà mai un nostro diritto,

un nostro “possesso” esclusivo.

La richiesta rivela così la mia verità

di un essere dipendente da Dio che è Padre,

che ha cura dei  suoi figli nella sua provvidenza

che è amorevole.

Stendo le mani alle sue mani di padre

per ricevere da lui il necessario per la vita

(cf il gesto stupendo ma spesso tanto trasandato 

della comunione sulla mano).

Il cristiano impara a fare di ogni cosa eucaristia.

Vi è infatti un modo eucaristico nell’uso delle cose e dei beni,

in esso è presente la memoria che da Dio riceviamo ogni bene.

 

Ancora:

la richiesta del Padre Nostro

 mi insegna a mai disgiungere

la preghiera dal lavoro.

Chi lavora e non prega non è nella verità:

si illude di essere lui protagonista della propria vita.

Chi prega e non lavora non è nella verità:

non mette in atto quelle capacità

di cui Dio ha dotato l’uomo perché collabori con lui.

Terremo sempre presente la sapiente massima

attribuita a Ignazio di Loyola:

Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio

e agire come se tutto dipendesse da noi”.

 

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COMMENTO DEL PADRE NOSTRO

SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
 

Certo la contraddittorietà di un regno e di una volontà divina

che potrebbe mettere tutto e subito a posto ogni cosa rimane.

Ci è difficile capire, soprattutto di fronte a certi drammi,

l’”impotenza” di Dio.

La preghiera ci aiuta a leggere la storia con gli occhi di Dio,

ad avere la sua pazienza

di fronte alla zizzania che cresce col grano,

di accettare i tempi e i modi così diversi dai nostri

che tante volte riteniamo i soli e i migliori.

Questa preghiera e questa attesa acuiscono in noi la fame

e sete di giustizia caratteristiche  di ogni vero discepolo.

 

La volontà di Dio non è più un mistero:

“Questa è la volontà di colui che mi ha mandato,

che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato,

ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).

In Cristo contempliamo già la realizzazione

della volontà di Dio su di noi e sulla storia.

Certo resta l’incertezza dei tempi,

riguardo alla modalità e alle circostanze.

In Cristo, mediante i sacramenti dell’iniziazione,

il Padre compie in noi la sua volontà.

E in questa volontà ciascuno di noi entra da soggetto,

da protagonista;

vi sono chiamate in causa la nostra libertà, intelligenza, creatività.

Nella volontà di Dio non vi è nulla di preconfezionato.

Il Padre ci ha fatto dono di esistenze aperte,

da costruire con lui.

 

La preghiera ci dispone nel medesimo

atteggiamento del giovane Samuele:

Parla Signore che il tuo servo ti ascolta”,

di Maria di Nazaret:

“Eccomi sono la serva del Signore,

si faccia di me secondo la tua parola”.

Non si tratta di rassegnazione ma di collaborazione.

Scrive Teilhard de C. (Ambiente divino):

Il trovare e il compiere la volontà di Dio

non è un fatto immediato

né consiste in un atteggiamento passivo…

Non raggiungerò la volontà di Dio in ogni istante

se non all’estremo limite delle mie forze,

nel punto in cui la mia attività

tesa verso il meglio-essere

si trova continuamente controbilanciata

dalle forze avverse che cercano

di fermarmi o di farmi cadere.

Se non faccio tutto il possibile per avanzare

o per resistere non mi trovo al punto giusto,

non subisco Dio quanto potrei e quanto egli desidera.

Se invece il mio sforzo è coraggioso,

perseverante,

io raggiungo Dio attraverso il male,

al di là del male; io mi stringo a lui.

 

Ancora una volta prendiamo atto di come la preghiera del cristiano

sia diversa da quella del pagano:

questi tenta di ottenere con la preghiera

che la divinità si pieghi al suo volere,

in fin dei conti se ne vuole accaparrare la potenza.

Il cristiano invece, come Gesù,

chiede di conoscere ed attuare il volere del Padre.

Gli chiediamo luce per conoscerla, forza per adempierla.

E una preghiera di tal genere potrà liberarla

dal profondo del cuore colui che crede aver

Dio disposto tutte le cose di questo mondo

per il nostro bene: gioie e dolori.

Chi prega così deve credere che la Provvidenza divina

ha più sollecitudini per la salvezza

e il bene di coloro che ad essa si affidano,

di quel che non siamo solleciti noi per noi stessi

(Agostino, Confessioni, 9.20).

 

 

CONCLUDENDO LA PRIMA PARTE

 

La prima parte del Pater si sofferma su Dio.

Così fa Gesù nel riassumere la Thoràh:

Amerai Dio e amerai il tuo prossimo.

Pregare che il nome sia santificato,

il regno venga,

o la volontà sia fatta

è cosa che non può essere realizzata

senza che già si partecipi effettivamente,

con il cuore e con l’anima,

a questo regno di giustizia e di amore,

alla volontà di pace.

Senza conversione e impegno per il prossimo

neanche una delle richieste

può essere pronunziata correttamente” (B. Stendaert)

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COMMENTO DEL “PADRE nOSTRO”

VENGA IL TUO REGNO

 

Il discepolo di Gesù è invitato dalla preghiera del Pater

ad invocare l’avvento del Regno.

Ed è questa una preghiera

che ha sempre accompagnato la comunità cristiana

che accanto all’invocazione del Pater,

pregava dicendo: Marana thà.

Venga il tuo Regno!

Queste invocazioni sottolineano il fatto

che la venuta del regno è gratuita,

è puro dono, indipendente dalla volontà dell’uomo.

Esso si può  ricevere,  ereditare (cf Mc 10,17),  

accogliere (Mc 10,15); attendere (Lc 2,25).

 

Da parte nostra ci sarà dunque solo un’attesa passiva?

Si tratta di stare a braccia conserte

come in stazione attendendo il treno?

Pregando le parole “Venga il tuo Regno” siamo  portati a

chiedere di entrare nella volontà di Dio,

nell’ottica del suo Regno,

imparando a scorgere fin d’ora,

nella nostra storia, i suoi germi di presenza.

La preghiera, se è autentica,

costringe ad aprire il nostro cuore all’accoglienza

di questi germi del regno

e a porre a nostra volta dei segni concreti della sua presenza.

Se il regno è pace, giustizia, amore, verità e vita

questo significa che cercherò sin d’ora di incastonare

in questa storia così sbilenca, contraddittoria,

segnata dal male e dalla morte

gesti nuovi di giustizia, di verità, di vita, di amore.

Sono questi doni che ci rimandano all’azione

presente dello Spirito nella Chiesa e nel mondo.

Non per nulla antiche traduzioni

dicevano in luogo di “venga il tuo regno” le parole

Il tuo santo spirito venga su di noi e ci purifichi”.

Lo Spirito è sempre più immediato inizio del regno che viene nella storia.

(Massimo il Confessore -IV sec. –

leggeva la sequenza Padre-Nome-regno

come un movimento trinitario).

Si domanda una presenza maggiore

della ricchezza di Cristo tra gli uomini,

nella loro vita, nelle loro strutture,

nel mondo in cui essi abitano.

 

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COMMENTO DEL “PADRE NOSTRO”

SIA SANTIFICATO IL TUO NOME

 

Più che trattarsi di domande le prime tre richieste del Padre Nostro

esprimono degli auspici, dei desideri, delle attese:

– sia santificato il tuo nome

– venga il tuo regno

– sia fatta la tua volontà

 

Per la cultura semitica il nome non era

una semplice designazione convenzionale,

esso era intimamente legato alla persona,

si identifica con essa.

 

Dare un nome nuovo significava ad esempio

affidare a quella persona una nuova missione,

un nuovo modo di essere,

implicava un profondo cambiamento e un potere su di lui.

Ricevere un nome da qualcuno significava

riconoscere di essere dipendenti da Lui

Non ti chiamerai più Abram ma Abraham

perché padre di molti popoli io ti costituirò.

Di conseguenza

conoscere il nome significava

possedere il segreto intimo della persona,

avere un potere su di lui,

da qui il suo valore magico.

 

In mezzo ad una massa di volti sconosciuti dà gioia il sentirsi chiamare

improvvisamente per nome da una voce amica.

Il mio nome risuona come un riconoscimento di me stesso come persona,

esso è quella realtà che mi distingue dagli altri

e che mi permette di entrare in relazione con l’altro.

Senza un nome io non esisto.

Quando incontriamo un bambino

gli chiediamo infatti per prima cosa: Come ti chiami?

Il nome è dunque non soltanto quella realtà che mi definisce

ma altresì quella realtà che mi pone in relazione con qualcun altro:

quando sono chiamato io esisto, io sono interpellato.

 

Anche Dio ha rivelato al suo popolo il suo nome:

JHWH (cf Es 3,14).

Non è dunque un’astrazione, un principio anonimo di esistenza.

Ma mentre rivelava il suo nome vi si nascondeva.

JHWH significa infatti: “Io sarò”.

E’ come se avesse detto: Da ciò che farò capirete chi sono.

La rivelazione del suo nome

lungi dal compiere la rivelazione

diventa un invito pressante alla ricerca,

perché Dio non si lascia afferrare:

JHWH è Dio ineffabile, indicibile, indescrivibile.

 

Gesù, che è l’esegesi del Padre (cf Gv 1),

ci ha manifestato un altro nome di Dio:

 il suo essere Padre, il suo essere amore.

Con la sua incarnazione, passione e morte ci ha detto chi è Dio.

E’ in Gesù che il Nome del Dio Santo

ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore:

rivelato da ciò che egli è, dalla sua parola, dal suo sacrificio.

Il nuovo nome è dunque Amore (“Dio è Amore”).

Per santificare il Nome noi dobbiamo unicamente

rifugiarci nella croce di Cristo.

Nella sua sofferenza e morte (O. Clèment).

  

Dio ci conosce nome per nome.

Di fronte a lui non siamo una massa.

Un nome con il quale Dio ci interpella, intesse un dialogo,

una relazione sponsale, paterna, amicale.

Quando chiama qualcuno lo fa sempre con il suo nome.

 

Invocare il nome santo di Dio è rispondere a questa chiamata,

e questa invocazione può assumere tantissime sfaccettature:

– un chiamare in causa Dio di fronte

al dramma della sofferenza umana:

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

– un atto di abbandono e resa nelle sue mani:

“Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46)

– un grido di aiuto:

“Padre passi da me se possibile questo calice”.

 

Invocare il nome non è pretesa di piegare Dio:

è lui il Signore, l’onnipotente, il creatore

che chiama le stelle per nome (Is 40,26).

 

E’ Gesù colui che più di ogni altro ha santificato il Nome di Dio.

Nell’Eucaristia memoriale vivo della sua morte e risurrezione,

preghiera somma della Chiesa,

noi santifichiamo il Nome di Dio.

Nella liturgia della parola narriamo le sue meraviglie per noi

santificando il suo Nome.

La memoria di Dio nella vita ci porta a compiere

opere tali da santificare il suo nome. 

I nostri gesti di amore, di dono, di sacrificio

sono occasione di lode al Padre da parte degli uomini (cf Mt 5,16),

la nostra vita di fronte agli altri assume il compito di specchio di Dio:

I serafini, lodando Dio, dicono:

Santo, Santo, Santo;

appunto le parole “sia santificato il tuo nome”

significano che il suo nome sia glorificato.

E’ come se dicessimo a Dio:

Concedici di vivere in modo così puro e perfetto

che tutti, vedendo noi, ti glorifichino.

La perfezione del cristiano sta proprio in questo,

nell’essere così irreprensibile in tutte le sue azioni,

che chiunque lo vede, per esse rende lode a Dio”

 

In fin dei conti non possiamo santificare il Nome

se non lasciandolo entrare nella nostra vita

con la sua azione santificante.

“Il nome santifica ed è santificato

 

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COMMENTO DEL “PADRE NOSTRO”

 

CHE SEI NEI CIELI

 

Non indica evidentemente un luogo ma un modo d’essere.

Era questa un’espressione comunissima

al tempo in cui Matteo scrisse il suo vangelo.

Ad esempio un rabbino contemporaneo degli apostoli dice:

Le pietre dell’altare fanno nascere la pace fra Israele

e il Padre suo che è nei cieli”.

 

Quale il significato di questa espressione?

Gli antichi erano meravigliati dalla profondità del cielo

a loro inaccessibile che rievocava il mistero,

la trascendenza, l’infinito.

Nella loro cosmologia il cielo appariva loro

come una realtà solida, costituito da acque

trattenute da un immenso velo costellato di stelle.

Nel cielo erano i depositi dell’acqua, della grandine e della neve.

Tutta la costruzione del cielo poggiava su solidissime colonne

(“Io tengo salde le sue colonne”).

Al di sopra di tutto il trono di Dio,

la sua dimora, la sua corte celeste, il suo palazzo.

Dio comunicava con la terra tramite gli angeli;

essi scendevano tramite scale (cf Gn 28,12);

in seguito per influsso delle raffigurazioni persiane

essi si serviranno di ali.

 

L’espressione “che sei nei cieli” sta ad indicare dunque

la totale trascendenza di Dio,

ma non la sua lontananza!

Evitando anche la banalizzazione

e la proiezione di false immagini di Dio.

Ma collocata subito all’inizio dopo la parola Padre

essa vuole anzitutto eliminare

ogni possibile confusione tra i “padri terreni”

e il “Padre” da cui proviene ogni paternità.

Certo l’espressione che “sei nei cieli” unita a “Padre”,

può generare in noi un certo disagio:

un vero padre non è mai lontano, staccato, inaccessibile.

Tuttavia nella fede cristiana siamo chiamati

a conciliare questi due aspetti di Dio;

la sua paternità non esclude la sua trascendenza e viceversa.

E’ un mistero di amore che ci avvolge

e che nello stesso tempo ci trascende infinitamente.

 

Il peccato ci ha allontanato “dai cieli”,

sono essi la “nostra patria”.

Viviamo come esiliati: Sospiriamo in questo nostro stato,

desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste (2Cor 5,2).

La nostra conversione potrebbe essere letta come un ritorno al cielo.

E’ un cielo ormai aperto:

“si spalancarono i cieli”  durante il battesimo di Gesù,

e da allora non sono più richiusi all’uomo.

In lui cielo e terra sono ormai eternamente riconciliati.

Paolo dirà: Il Padre ci ha fatti sedere

(ovvero possiamo rimanervi, sono ormai nostra dimora)

nei cieli in Cristo (Ef 3,6).

 

La Lettera a Diogneto riporta la stessa riflessione:

I cristiani sono nella carne,

ma non vivono secondo la carne.

Passano la loro vita sulla terra,

ma sono cittadini del cielo (5,8).

 

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